Commento ai film “Direttissima”, “Una cordata europea” e “die Wand”
Pubblicata il 07/05/2017
di Christian Malacarne e Niccolò Giovannini
Manca poco al termine del Film Festival e oggi, 6 maggio, i tre film-tributo al regista Lothar Brandler ci hanno permesso di fare un tuffo nel passato.
Realizzati nella seconda metà dello scorso secolo, questi tre cortometraggi testimoniano come siano cambiati la scalata e i mezzi con i quali si porta testimonianza della prima. Al giorno d’oggi andare in parete e trovare dei chiodi ben saldi alla falesia ci sembra una banalità tanto quanto avere un imbraco abbastanza resistente da darci il lusso di cadere in sicurezza: solo cinquant’anni fa tutto ciò era impensabile.
Nella serata di venerdì 28 aprile, con la straordinaria presenza di Adam Ondra, scalatore professionista che ha raggiunto i massimi livelli dell’arrampicata sportiva, sono state raccontate le storie dell’arrampicata e dell’alpinismo, in occasione dei Climbing Games: sono state narrate da persone che in quegli anni avevano vissuto e toccato con mano pareti sempre viste come “mura”, trasformandole in vie capaci di dare mille emozioni.
Naturalmente i pionieri di questa disciplina si avventuravano avanzando nell’ignoto: sperimentavano tecniche che oggi ci giungono finite e sicure (basti pensare ad un chiodo… allora veniva impiantato in parete mentre si saliva e poteva sfilarsi in qualsiasi momento).
Non bisogna pensare però che si sia evoluta solamente la tecnica di arrampicata: man mano che si procede nella visone si può constatare come ci stata una forte evoluzione anche nella creazione di questi documentari, tanto che si potrebbe pensare che appartengono a diversi registi.
Questi tre cortometraggi sono legati principalmente da due elementi: quello tecnico sta nel fatto che le riprese sono state fatte con grandissimo sforzo e le scene sono state montate in sequenza con una voce narrante; mentre il secondo fattore è determinato dalla presenza di pionieri dell’arrampicata nel ruolo di protagonisti delle vicende.
Il processo di perfezionamento della tecnica cinematografica parte da “Direttissima”, un documentario dall’aspetto piuttosto grezzo: è infatti un cortometraggio in bianco e nero accompagnato da una voce narrante che riporta con fare monotono le vicende. Si parla della spedizione effettuata da un giovane escursionista tedesco e una guida alpina italiana che sfidano in coppia una delle pareti più difficili delle Dolomiti; la seconda proiezione, “Una cordata europea”, rappresenta un momento di passaggio: il narratore esterno è sostituito dalla voce narrante di uno dei tre protagonisti e il tema, come trasmesso dal titolo, non è più la “banale” descrizione di un’impresa impegnativa, infatti il film si limita ad usare quest’ultima come scenario. Il cortometraggio assume quindi la funzione di manifesto nei confronti dell’idea di unità all’interno del panorama europeo: i protagonisti, un tedesco, un italiano e un francese, si trovano ad affrontare insieme una parete impegnativa, abbattendo così le barriere culturali che pochi anni prima avrebbero reso tale impresa impensabile. La voce narrante è quella del Francese, che afferma: “non ci siamo parlati molto durante la salita, ma ci siamo capiti comunque”: una frase del genere racchiude uno dei messaggi più importanti che la montana possa dare: in montagna non contano le parole, ma i fatti, che sono più notevoli e sostanziosi di qualsiasi discorso.
Il culmine del processo evolutivo è rappresentato da “Die Wand”. Quest’ultimo film si distanzia dal documentario e assume quasi le caratteristiche di un film d’avventura. Anche qui è il protagonista a narrare la sua storia, tuttavia appare un ulteriore elemento di innovazione: il personaggio acquisisce una connotazione psicologica piuttosto approfondita. Si parla infatti di come uno scalatore affronta una parete, delle difficoltà, dei pensieri e di come, di fronte ad un rischio eccessivo, decide di desistere.
Questi tre film rappresentato quindi una perfetta occasione per constatare come il cinema abbia subito nel corso del tempo un’evoluzione tale da permettere al regista di comunicare sempre più dettagliatamente il messaggio che desidera diffondere attraverso questo medium.
Questi film, nonostante il loro aspetto grezzo, devono portare a riflettere sul significato sull’arrampicata: perché mai si dovrebbe voler scalare una parete di 550 m, assicurati a chiodi insicuri e appesi a corde sfilacciate? Questa risposta data mezzo secolo fa, ci viene data nel primo cortometraggio, ed è assolutamente attuale: “non è forse l’impossibile che ha spinto gli uomini a tentare?”. La voglia di avventura, il desiderio della scoperta porta gli uomini a fare ciò che fanno, altrimenti per cosa? In “Die Wand”, lo scalatore, dopo essere precipitato per qualche metro in caduta libera a causa del cedimento di un chiodo, ci dice “Che figura! Speriamo che nessuno mi abbia visto… e adesso come faccio? Torno in dietro? In fondo arrendersi è solo perdere un po’ del proprio orgoglio”. Queste parole mi sono sembrate più che mai spontanee e ingenue, ma estremamente vere: il non poter raggiungere uno scopo non fa altro che rendere una persona un po’ più umile, ma al tempo stesso più determinata a raggiungere il suo obiettivo.