L’Annapurna, le montagne selvagge e il labirinto bianco

Pubblicata il 04/05/2017

FedericoZuanni_TFF_090bdi Christian Malacarne e Niccolò Giovannini

“Annapurna III – Unclimbed”

“La decisione più grade che possa prendere uno scalatore, è quella di non scalare.”

La prima proiezione della giornata presso il Cinema Multisala Modena è stata il cortometraggio “Annapurna III”. Situato in Nepal, l’Annapurna è un massiccio della catena dell’Himalaya con vette che si impongono sul paesaggio circostante fino a superare gli 8.000 metri s.l.m.

David Lama, il documentatore della spedizione, è riuscito a realizzare questa straordinaria pellicola. I veri protagonisti di quest’avventura sono però gli scalatori Hansjörg Auer e Alex Blümel: dopo aver dedicato più di un anno alla progettazione dell’ascesa alla vetta attraverso la cresta Sud-Est del massiccio, si trovano immersi nella natura incontaminata ai piedi del gruppo montuoso.

L’alternarsi delle riprese dell’imponente vetta e del paesaggio circostante, a momenti dedicati più strettamente alle emozioni provate dagli avventurieri, rende possibile immedesimarsi nei due; il loro obiettivo era quella di raggiungere per la prima volta l’inviolata vetta all’altitudine di ben 8.091 m: molti altri esperti avevano provato tale impresa, fallendo a causa di molti fattori, fra cui il clima estremamente instabile. Il film riesce a seguire i personaggi nel loro iter di preparazione tecnica e psicologica, appassionando lo spettatore e riuscendo a catturare la sua attenzione, fino a farlo commuovere quando, al termine della proiezione, i due si arrendono, non riuscendo a perseguire il loro scopo. Questi ultimi fotogrammi trasmettono la delusione provata e la fermezza che ha portato Auer e Blümel ad abbandonare il loro sogno.

“Annapurna – Unclimbed” non dev’essere considerato solamente come la telecronaca di un’avventura, ma come un mezzo per far riflettere sul significato della montagna: l’uomo non deve considerare “l’andare in montagna” come una sfida con/contro se stesso, non come un superare i propri limiti a tutti i costi, non come un terreno sul quale testarsi, ma come un mezzo grazie al quale comprendere le proprie capacità e i propri confini, sia fisici che mentali.

“La grandezza dell’uomo sta nell’essere mortale, nel sapere che prima o poi, in un modo o nell’altro, la vita finisce”. Questo dicevano i Greci, esaltando le azioni degli eroi epici, in quanto fatte da mortali. Anche il regista con questo intenso cortometraggio intende sottolineare questo aspetto. La vita va vissuta in ogni possibile esperienza, anche al limite, ma quel confine non dev’essere superato: quando un uomo (o anche una donna, perché no?) si spinge fin lì, ma poi decide di fermarsi e di non esagerare, è allora, solo a quel punto che prende piena coscienza di sé.

“Quando le montagne erano selvagge.”

“Un viaggio alla ricerca delle montagne inesplorate d’Europa.”

“When the mountains were wild”, quando le montagne erano selvagge. Al giorno d’oggi l’intero arco alpino è costellato di località sciistiche e la concezione della montagna come luogo selvaggio e inospitale sta via via scomparendo. Per questo motivo cinque sciatori e snowboarders professionisti decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca delle montagne ancora “vergini” in Europa. La scelta è ricaduta sui Balcani che, a causa dei conflitti del secolo scorso, non hanno assistito ad un processo di sviluppo del settore turistico. I cinque compagni iniziano il loro viaggio a bordo di un furgoncino che li condurrà fino al cuore selvaggio dei Balcani. In questa zona le condizione climatiche avverse e la civilizzazione quasi assente rendono incredibilmente arduo, se non impossibile, qualsiasi intervento di soccorso. “In condizioni così estreme è necessario non confidare in solo in un piano A, ma avere pronti anche un piano B, C, D… l’importante è saper essere flessibili e pronti a tutto”. Queste le parole di uno degli escursionisti intervistati subito dopo la proiezione. Il paesaggio che accoglie gli escursionisti è quello di un desolato scenario di guerra ormai caduto in rovina: macerie ricoperte da innumerevoli fori di proiettile, edifici abbandonati, rifugi ormai in disuso e coperti da metri di neve. Il paesaggio quasi alieno che si prospetta davanti ai loro occhi è circondato da un immensa catena montuosa, le cosiddette “Montagne maledette”.

Non c’è da meravigliarsi per la scelta di un nome tanto tetro; i monti ritratti trasmettono infatti un connubio di magnificenza e timore quasi indescrivibili: si stagliano bianchi verso il cielo, completamente coperti di neve, tuttavia nascondono insidie potenzialmente letali. Questo cortometraggio lascia anche spazio ai rarissimi abitanti di questi territori e alle loro vite. Sono perlopiù pastori che si offrono volontari per accompagnare i turisti che talvolta giungono in quella regione. “Gli sci sono un mezzo per raggiungere luoghi altrimenti impossibili da raggiungere, ma ciò che resta nel cuore sono i valori e le esperienze raccolte dalle persone del posto. Vivono in condizioni che per noi sarebbero insostenibili e al ritorno a casa perfino aprire un rubinetto sembra un lusso incredibile!” afferma lo stesso alpinista.

La durata piuttosto breve non impedisce a questo film di dipingere un quadro molto dettagliato dell’intera esperienza. La fotografia è buona, nonostante, come affermato durante l’intervista: “In quelle condizioni conviene optare per un equipaggiamento leggero, anche a discapito della qualità video che è comunque ottima.” Anche la regia è gradevole: l’alternarsi di riprese statiche di paesaggi e di riprese molto dinamiche durante le estreme discese permette da un lato di ammirare dei panorami mozzafiato contemplandone immobilità glaciale, dall’altro di provare una forte carica adrenalinica osservando le imprese di questi compagni spericolati.

Durante l’intervista è stato anche messo in luce il costo molto ridotto della spedizione, infatti a detta del protagonista: “Non ci sono stati grandi investitori o sponsor, ognuno ha pagato il suo viaggio e l’unico extra è stato il montatore video. Questo ci ha permesso molta libertà per le scelte logistiche, potendo così scegliere il metodo a noi più congeniale.”

L’esperienza complessiva permette quindi allo spettatore di immergersi in questa avventura, riuscendo quasi a partecipare spiritualmente ad essa, traendo molti spunti di riflessione morale.

“The white maze”

Come ultimo film della trilogia proposta dalle ore 15 è stato “The white Maze” (il labirinto bianco). È possibile creare un possibile parallelismo fra questi ultimi due film (When the Mountains Were Wild e The White Maze). Anche questo film ci presenta la montagna come un’occasione di riflessione, ma anche di divertimento consapevole del rischio che si corre. Questa volta i protagonisti sono due austriaci appassionati della sciata. Matthias Hauni Haunholder e Matthias Mayr, alla ricerca del divertimento e del pericolo estremo, decidono di intraprendere un viaggio verso la Siberia. Circondata da un’aura di mistero e leggenda, la Siberia è uno dei luoghi più isolati della Terra: un posto perfetto per sciare!

Le due giovani promesse dello sci fuori pista hanno così deciso di sfatare un mito, una credenza presente fra la popolazione alle pendici del monte Pobeda: secondo questo gruppo nomade, infatti, non era possibile avvicinarsi neppure alla vetta, poiché gli dei avrebbero cambiato il tempo meteorologico, impedendo a chiunque di raggiungere la cima.

Grazie ad un budget economico minimo e sostenuti da alcuni sponsor (fra i quali bisogna ricordare la famosa marca di bevande energetiche, nonché promotrice di clip di sport estremi), sono partiti una prima volta per sondare il territorio mai visto prima (escludendo naturalmente viste del satellite). Organizzata la spedizione e preparatisi psicologicamente per più di un anno, i due sono partiti. Senza lasciare nulla al caso e avendo sempre un piano alternativo, giunti in Siberia e conosciute le popolazioni locali (dopo che queste avessero fatto un falò per rendere gli dei propizi a loro), si sono spinti verso la vetta.

Dopo giorni di cammino, di osservazione e di studio della parete più praticabile, con un’ottima temperatura (solamente di -35°, notevolmente sopra la media stagionale) hanno dato inizio alla loro avventura straordinaria. Grazie all’impegno impiegato, ai sacrifici e alla dedizione messa in questa impresa (e certamente grazie al rito praticato in favore degli dei), Hauni e Mayr sono giunti sulla vetta più alta della Siberia, la vetta Pobeda.

Il regista è riuscito a mescolare senza confondere la gioia provata dal gruppo per il raggiungimento del loro obiettivo, all’impegno dedicato all’opera. Mathias, come ha dichiarato dopo la proiezione della pellicola, è riuscito ad apprezzare questo viaggio soprattutto per la crescita psicologica e tecnica, e non ha nascosto che incontrare persone così distanti e diverse da noi, con abitudini così apparentemente strane, è stata un’esperienza indimenticabile che gli ha fatto riscoprire dei gesti quotidiani, ai quali prima di questi incontri, dava per banali.

Anche le più radicate convinzioni delle popolazioni nomadi Siberiane, evidentemente, possono essere smentite, grazie alla determinazione di due giovani, pronti a non farsi fermare da nulla e da nessuno, pur di perseguire il loro intento.