Una natura forte e pervasiva, un nonno spietato e il desiderio di fuga di un ragazzino: “L'inverno di Giona” è il primo romanzo di Filippo Tapparelli
Pubblicata il 28/04/2019
Insieme a Lisa Orlandi, Filippo Tapparelli ha presentato oggi alla sala Caritro il suo romanzo d’esordio “L’inverno di Giona”, edito da Mondadori
Un romanzo di formazione, o di “deformazione”, di cura, di guarigione o un thriller psicologico: difficile dare un definizione a L’inverno di Giona, libro di Filippo Tapparelli presentato oggi alle 17.00 nella sala conferenze della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. L’autore, accompagnato dalla responsabile della Piccola Libreria di Levico Lisa Orlandi, ha raccontato l’origine di questa sua prima opera, già ampiamente apprezzata dalla critica.
Un romanzo non facile, un crescendo di ansia e angoscia, per una storia ambientata in un gelido paese di montagna dove il quattordicenne Giona si scopre immemore: non ricorda nulla si sé e del suo passato. In un’atmosfera confusa e rarefatta, Giona vive con il nonno Alvise, un antagonista feroce e spietato con “mani come pinze e denti come quelli di una sega. E’ alto, anzi, gigantesco”. Fortissima la caratterizzazione dei personaggi e non solo, anche il paesaggio costituisce un elemento fondamentale del romanzo. Un paese duro e aspro dove il desiderio di fuga di Giona emerge con grande violenza e incontra la complicità di Norina, una bimba che cammina sempre accompagnata da un gatto color carbone.
Filippo Tapparelli è istruttore di scherma e grande appassionato di montagna, ha studiato letteratura russa e ama il parapendio. L’inverno di Giona è il suo primo romanzo e ha ottenuto il Premio Italo Calvino “per la sua grande forza visionaria: nel testo, con stile rarefatto, un allucinato mondo mentale si trasforma in un mondo fisico insieme minuziosamente reale e sottilmente simbolico. Un potente e struggente giallo analitico in cui la verità si sfrangia in tanti rivoli, toccando i temi della colpa, del castigo, del bisogno umano di riconoscimento”.
Testo di Valeria Marchiori
Foto di Federico Gazza